29 Aprile, 2024

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La mia 24 ore di Grenoble (F)

La mia 24 ore di Grenoble (F)

Torno dalla Francia con un paniere ricco di doni. Oltre alla soddisfazione personale per il risultato ottenuto, mi rimangono nel cuore una serie di emozioni difficili da stemperare nell’arco di pochi attimi ed ancor più arduo è il compito di descriverle cercando di non risultare patetico. Corro le gare di 24 ore per un motivo ben preciso: mi fanno sentire quello che io definsco “l’alito vitale della corsa”, ovvero quell’insieme di situazioni, emozioni, percezioni che solo nell’arco di tante ore possono davvero scorrere sulla pelle ed all’interno del mio cuore. Un susseguirsi continuo di gioia, sofferenza, rimonta, abbattimento, resistenza, e poi ancora gioia, ancora dolore, ancora sudore, unaltro chilometro, uno ancora, poi il buoi, il freddo, le voci lontane, quelle vicine, i ricordi di un

 tempo, i problemi di adesso, quelli di sempre, il suo sorriso come fosse una medicina, poi l’alba, la prima luce nel cielo, gli occhi degli altri, i miei ancora aperti, di nuovo il sudore, la sete sul palato asciutto, la Coca Cola come fosse un nettare divino, la birra più tardi, l’ultima ora, l’ultimo sparo… E’ già finita?
Dentro a questo delirio di brividi si concentra un’eperienza che mi porta ogni volta a conoscermi meglio, a conoscere la mia piccola dimensione di uomo e di atleta, ma che più di ogni altra cosa mi gratifica per ciò che Dio mi ha donato: la vita. Ridurre la 24 ore ad una semplice gara di corsa, sarebbe come descrivere la Divina Commedia paragonandola ad un romanzo…
A Grenoble ho avuto la riconferma, semmai ce ne fosse bisogno, di quanto questo mio pensiero sia fondato. Nel momento cruciale della gara (perchè non bisogna mai dimenticare che sempre di una gara si tratta), quando insieme a Philippe Warembourg (francese da 251 km) e Emmanuel Conraux (altro francese da 255 km) ci giocavamo il podio, proprio da loro, dalle loro voci, mi sono arrivati gli incoraggiamenti per resistere, per andare più forte, per crederci fino in fondo. Io non sò se questo accade anche negli altri sport (dove a volte ho la sensazione che il lato puramente egoistico della propria prestazione prevalga sempre e comunque su qualsiasi altro valore), ma sono certo che in quello che pratico io (l’ultramaratona), la fratellanza ed il profondo senso di rispetto per il valore altrui, sia qualcosa di tangibile, al punto di sentirselo tatuato sulla pelle. Un plauso di merito va a tutto lo staff dell’organizzazione, impeccabile, precisa, generosa e umanamente molto sensibile, sotto ogni punto di vista. E pensare che si trattava di una prima edizione. Nessun comunicato stampa, nessun record da battere, niente proclami di stampo fieristico; solo quello che richiede una buona 24 ore: senso di rispetto nei confronti di chi si presta a soffrire e di chi assiste. Nello specifico io ho un vantaggio in più rispetto agli altri, e questo fa di me, oltre che un uomo fortunato, anche un atleta con un pizzico di autoconsapevolezza maggiore: io posso contare su Monica. Senza di lei, e senza quel nostro “sentirsi un’unico fiato, un unico passo, un unico essere”, tutto sarebbe molto più arduo. La sua notte è la mia notte, lei è la mia sicurezza nei ristori, la mia voce nello sconforto, la mia voglia di fare ancora un giro, un altro ancora, per arrivare là, dove sò che i suoi occhi s’icastrano nei miei, e tutto diventa facile. Anche correre per 24 ore, anche fare km 231,586. Grazie di cuore a tutti gli amici, a quelli che hanno trascorso la notte svegli davanti al monitor del computer, rischiando la tachicardia da caffè, e che al mattino della domenica mi hanno fatto sentire il loro immenso calore.

Scritto da Andrea Accorsi

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