Nell’ambito del running, la scelta dell’allenatore riveste notevole importanza sia in ambiente professionistico (nel qual caso, la scelta giusta, oltre che importante, diventa fondamentale) sia in ambiente amatoriale. Scopo principale di questo articolo è proprio quello di chiarire esattamente come un atleta amatore possa e debba scegliere un allenatore. Per fissare le idee supponiamo di parlare di maratona, ma il discorso vale per qualsiasi altra distanza della corsa di resistenza. Idealmente, ognuno di noi ha un limite psicofisiologico, la meta cui in teoria possiamo arrivare, il nostro target. Tale dato varia nel tempo, ma può essere ragionevolmente fissato per una stagione agonistica. Supponiamo che il nostro amatore valga potenzialmente 2h58′. In realtà, lo scorso anno non è riuscito a far meglio di 3h20′ (il grosso divario non illuda nessuno; non sempre è così netto in quanto per atleti già ottimizzati può essere solamente di qualche minuto). Era il primo anno che correva, si è affidato a consigli raccolti qua e là, a programmi trovati
su una rivista ecc. Decide pertanto di rivolgersi a un allenatore. Per definire il rapporto con l’allenatore e arrivare a centrare il target si possono definire tre stadi.
Lo stadio 1
Il runner fa esperienza, acquisisce in prima persona tutta una serie di informazioni, arriva a preparare l’evento usando tabelle generiche come quelle, per esemmpio, riportate nel mio testo Il manuale completo della maratona. Il miglioramento ottenuto tramite questo stadio, dipende da due fattori fondamentali:
- l’equilibrio psicologico del soggetto
- la capacità di comprendere le informazioni che elabora.
Il primo punto è spesso decisamente sottostimato ed è trattato estesamente nel mio L’allenamento mentale negli sport di resistenza; un soggetto non equilibrato difficilmente riesce a migliorare molto perché tende a commettere sempre gli stessi errori; gli errori che lo bloccano nella vita ovviamente lo bloccano anche nel suo sport preferito. Ho volutamente inserito “ovviamente” perché in realtà a molti ciò non è affatto ovvio. Spesso mi è capitato di parlare di allenamento con soggetti ansiosi, deboli, iperottimisti ecc.: si perdevano nella discussione di dettagli insignificanti, non capendo che erano bloccati dai loro limiti caratteriali, prima che quei dettagli avessero peso. Evangelicamente parlando, cercavano la pagliuzza, quando dovevano vedere la trave nel loro occhio.
Anche il secondo punto è fondamentale: molti runner non fanno il minimo sforzo per capire ciò che riguarda la corsa, altri si limitano a rivoltare in mille salse solo ciò che sanno già, ma non hanno nessuna intenzione di apprendere cose nuove. Anni fa correvo con un ragazzo il cui rendimento scolastico non era certo brillante; mi spiegava che “tanto sarebbe andato a lavorare”… Avendo notato che il padre del ragazzo, anch’esso runner, era un patito del cardiofrequenzimetro e avendone intuito il vero motivo (sarà chiaro fra breve), arrivati all’ottavo chilometro, con la scusa che non avevo fatto partire il mio cronometro, gli chiesi a quanto stavamo andando. 4’05″ fu la risposta, subito controbattuta da una domanda più difficile: “no, intendevo la media…”. Panico totale: non sapeva dividere il tempo complessivo per otto. “Ecco a cosa serve studiare, prima o poi la vita ti presenta comunque il conto. Sono anni che tuo padre si allena con il cardiofrequenzimetro perché non sa fare due semplici conti a mente, conti i cui trucchi tutti possono imparare in mezz’ora. Se si allenasse anche con il cronometro, probabilmente avrebbe un ulteriore piccolo margine di miglioramento”.
Nella gestione del primo stadio, il soggetto ha così tanti margini di miglioramento che una semplice tabella e un po’ di informazioni utili ottengono comunque un risultato (per esempio la banale informazione: devi dimagrire!). Per onestà, in questo stadio, è giusto dire che, anziché un guru della corsa, sono più utili una corretta tabella generica e un buon libro. I risultati di questi strumenti sono tanto maggiori quanto migliori sono i due punti sopra descritti.
Diciamo che il nostro amatore alla fine dello stadio 1 arriva a 3h08′, allenandosi da solo o con un allenatore che si limita a fornirgli gli strumenti su cui lavorare, senza intervenire più di tanto. L’allenatore in questo caso è solo un consulente.
Lo stadio 2
È lo stadio della personalizzazione; il soggetto si rende conto che con l’esperienza e gli occhi di un personaggio esterno può correggere i suoi difetti e aumentare le sue conoscenze molto più in fretta che da solo. La personalizzazione non si limita solo alla gestione del programma di allenamento, ma anche alla minimizzazione dei problemi psicologici e alla risoluzione di quei problemi di conoscenza/esperienza che obiettivamente si rilevano. In questo caso si parla veramente di allenatore, una figura che a fronte di un impegno di un paio d’ore mensili, diluite con continuità nell’arco del mese (per esempio con un contatto settimanale), riesce a gestire i problemi più grossi. È ovvio che due ore possono non bastare se il meccanismo di comunicazione è “lento”, leggasi incontri personali, telefonate ecc. La rivoluzione di Internet consente, per esempio, di minimizzare questi tempi con lo strumento della mail. Perché è importante la minimizzazione del tempo? Perché permette di contenere i costi entro limiti ragionevoli. Se un personal trainer in palestra costa 50 euro all’ora, ben si capisce che una ventina di ore all’anno hanno un costo di circa 1.000 euro…
Molte tariffe superscontate vengono di solito praticate per “esperimento scientifico”, cioè la costruzione di un database di dati che accresce enormemente anche le conoscenze dell’allenatore.
In ogni caso non è impossibile trovare un allenatore che offra a prezzi ragionevoli i servizi descritti nello stadio 2. A questo punto diciamo che l’atleta arriva a 3h.
Lo stadio 3
Ora però non bastano più due ore al mese. Occorre correggere i minimi difetti dell’atleta (corsa, alimentazione, integrazione, psicologia ecc.) e ottimizzare al massimo l’allenamento. Siamo in una visione professionistica, anche se il soggetto è un amatore. Ogni allenamento va valutato e deve diventare il fulcro dell’allenamento successivo: è quella che si chiama personalizzazione su personalizzazione. Il contatto è quasi giornaliero (anche solo per confermare che tutto è OK), con un tempo mensile di almeno otto ore, con un costo complessivo che si aggira attorno ai 400-450 euro mensili. È ovvio che tali costi possono essere sostenuti solo da un professionista. Il nostro amatore comunque arriva al suo target di 2h58′.
Gli errori degli amatori
Sono sostanzialmente tre.
Il primo è una sottovalutazione economica del lavoro dell’allenatore. Un cattivo allenatore non serve, anzi, può essere disastroso, quindi, se avete dubbi, lasciate perdere. Viceversa, un ottimo allenatore non può costare meno di un personal trainer o di uno specialista medico.
Il secondo errore è ritenere che basti sempre e solo la tabella. Come questo articolo cerca di dimostrare, la tabella è solo il punto d’inizio, poi il vero plus sono le correzioni che l’allenatore apporta settimanalmente/mensilmente (stadio 2) o addirittura giornalmente (stadio 3).
Il terzo errore è ritenere che, arrivati allo stadio 2, ci possa essere uno stadio intermedio (e quindi non molto costoso) rispetto allo stadio 3. In realtà, dovrebbe essere ormai chiaro che tale stadio non esiste e che quei famosi 2′ in meno sono frutto di un connubio allenatore-atleta quasi quotidiano.
Cosa fare?
Personalmente ritengo che lo stadio 1 debba essere gestito solo dall’atleta: sforzandosi di conoscere il più possibile, migliorerà facilmente. Strumenti come libri, riviste, siti ecc. sono in grado di rendervi i primi allenatori di voi stessi. Ovviamente occorre fare la scelta giusta, ma del resto è così per tutte le cose della vita.
Lo stadio 2 deve essere privilegiato da chi ha sviluppato buone conoscenze, buone esperienze, ma vuole migliorare più in fretta. In genere è tanto più proficuo quanto più l’atleta è malleabile, intelligente, aperto alla comprensione e al dialogo, equilibrato. La scelta dell’allenatore non può essere un dovere. Più che nello stadio 1 (in tale stadio migliorano tutti, anche se allenati da chi ritiene che la maratona sia un dolce greco…), l’allenatore deve essere preparato, disponibile ed ex-atleta. Notate la finezza. Un professionista può essere allenato anche da un allenatore che non ha mai corso nemmeno per 100 metri perché si instaura un rapporto di lavoro in cui l’allenatore diventa anche “padre-padrone” dell’atleta che “deve” lavorare in un certo modo. Esiste cioè una gerarchia che l’atleta sopporta perché la posta in gioco è alta. Nel caso dell’amatore tale gerarchia sarebbe assurda e l’allenatore deve essere più un “compagno di viaggio” che un maestro la cui parola non può essere messa in discussione.
Per quanto detto, lo stadio 3 è praticamente impossibile per un amatore. C’è però una scappatoia destinata ai più fortunati: allenarsi in un gruppo che dispone di un allenatore full-time. Chi si allena nel mio gruppo, praticamente può usufruire di un servizio che è comune a tutti e… senza sborsare un euro. Purtroppo se le mail viaggiano velocissime, il teletrasporto dei corpi è per ora solo fantascienza.
Wellness trainer: chi è costui? Per rispondere compiutamente a questa domanda, riprendiamo l’esempio del runner amatore che si rivolge a un allenatore per migliorare le proprie prestazioni, per esempio per correre la maratona sotto le tre ore. In seguito a tale richiesta l’allenatore cosa fa? Chiede informazioni sulla vita sportiva dell’atleta e poi parte con il programma di allenamento. Cosa c’è di sbagliato in questo atteggiamento? Molte cose, vediamole.
1) L’allenatore non si preoccupa della salute dell’atleta. Non vengono fatti esami, non si valuta l’alimentazione, non si esegue un test per la valutazione della massa grassa ecc. L’atleta potrebbe avere il colesterolo a 300 con HDL a 30 (indice di rischio cardiovascolare=10!) e morire d’infarto al primo allenamento. Gli allenatori più scrupolosi chiedono all’atleta il certificato di idoneità sportiva, un documento la cui validità generale è abbastanza bassa (non vengono effettuate analisi del sangue per valutare il rischio cardiovascolare, non si fa nessun discorso alimentare, di sovrappeso ecc.). In ogni caso la semplice richiesta del certificato è il primo passo per lavarsi le mani riguardo a ogni questione medica.
2) Il programma di allenamento deve essere tarato in base alle caratteristiche fisiologiche dell’atleta. I programmi generici non arrivano mai a ottenere il massimo. Si supponga che due atleti corrano i 5000 m in 20′: il primo ha un ematocrito di 39, mentre il secondo di 45. Come si fa ad allenarli allo stesso modo? Dovrebbe essere ovvio che il secondo ha migliori qualità aerobiche di base e probabilmente è limitato da fattori dove invece il primo eccelle.
3) Un atleta professionista ha a sua disposizione un’équipe medica, mentre il comune mortale può al massimo servirsi di un allenatore perché un medico sportivo (uno generico è spesso controindicato!) non è facilmente disponibile sia per il costo che per la reperibilità. Non si può pretendere che il singolo sia il solo medico di sé stesso; insieme ai consigli sulla preparazione occorre dare consigli sull’integrazione alimentare, sulla fisiologia sportiva, sulla medicina in generale. Vendere notizie riprese da altri, da riviste, da libri è il peggior servizio che si può fare al soggetto. Occorre capire. Un allenatore che non vuole studiare è come un atleta che non ha voglia di allenarsi.
Come si possono riassumere i punti precedenti? Un allenatore veramente moderno deve essere un
wellness trainer
o per dirla all’italiana, un preparatore atletico con competenze di alimentazione, dietologia, fisiologia, medicina sportiva ecc.